A proposito di dialogo tra persone con culture diverse, segnalo un libro edito da ilSaggiatore, intitolato “Una vocazione controcorrente”, che nasce da un dialogo fra tre individui con storie personali differenti: Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità milanese; Suor Chiara Francesca Lacchini, sino a poco tempo fa badessa di un convento di clausura; ed io stesso, ebreo ateo e di sinistra. Cito una mia pagina (p. 19) del volume:
“‘Ricordati che se tu esisti è perché ci sono io’ è anche per me un punto-chiave. Da sociologo e ricercatore sociale ritengo che non possiamo pensare a noi stessi in termini di un’unica identità. Siamo tutti portatori di un’identità multipla: per esempio, io sono ebreo, non religioso, milanese, cittadino del mondo, tifoso della Spal e dell’Avellino eccetera. E anche da un punto di vista sociale un io individuale ed esclusivo non esiste. In genere, definiscono un’identità il luogo in cui si è nati, l’appartenenza a una comunità, l’avere un corpo. L’aspetto più importante è che le nostre identità sono plurime, a volte conflittuali, spesso cangianti, poiché in molti casi cambiamo parzialmente nel corso del tempo. L’identità unica e stabile nel tempo per me è una concezione falsa e pericolosa, cara a tutti i fondamentalismi religiosi, ai populismi, ai fascismi.
Inoltre, l’identità è relazionale, cioè data dal rapporto con gli altri. L’Io è un noi: siamo fondati dalle relazioni. Aveva ragione la donna che ti ha detto “Se tu esisti è perché ci sono io”: l’identità esclusiva e isolata dal mondo è impossibile. Prima di tutto perché nasciamo da un ventre di donna, e in secondo luogo perché nessuno è mai vissuto, dalla nascita alla morte, in totale solitudine. Dobbiamo pertanto ritenerci un fascio di “io” in relazione alle altre persone, un io plurimo e sociale.
Ecco dunque i temi dell’accoglienza e dell’amicizia che hai sollevato. L’accoglienza, a mio parere, è indispensabile per vivere: possiamo negarci il privilegio di accogliere e di essere accolti ma – se lo facciamo – amputiamo una parte rilevante di noi stessi. La verità è che abbiamo un bisogno radicale di accogliere e di essere accolti: siamo, come si dice, animali sociali. L’altro è costitutivo dell’io (e del noi) e dovremmo poterlo guardare senza difficoltà. Lingue e abitudini diverse ci danno la sensazione di avere a che fare con individui lontani e incomprensibili. Sarebbe pericolosissimo, tuttavia, ritenere che questa lontananza debba generare inimicizia: è vero il contrario, cioè che possiamo imparare molto dagli altri. Al fondo esiste un senso di umanità che ci accomuna più di ogni altra cosa. L’accoglienza non è dunque un dovere, è un piacere. È necessaria per essere umani, per essere noi stessi.”
Credits: Sara Bodini
Hai ragione Enrico, sbaglio se traduco: gli altri ci definiscono e noi definiamo gli altri?
Forse no, purché questi “confini” siamo lasciati aperti e comunicanti, per arricchirci vicendevolmente.
Ma quanta fatica implica questo, per vincere diffidenza, ritrosia, paura, supponenza.
Grazie