La fragilità degli umani non è una debolezza da deplorare o contrastare o addirittura curare (come ritiene certo pan-psicologismo).
È, invece, una forza da accettare, valorizzare, vantare. Per tre motivi.
Il primo è che essa è vera, dal momento che la vita è sempre finita, destinata a cessare; che non possiamo conoscere, sentire, comprendere tutto (anche di noi stessi); che capita che ci rompiamo, fratturandoci le ossa, il corpo, la mente, la psiche.
Il secondo motivo ha a che fare con la perfezione, a cui spesso tendiamo ma che dovremmo sapere essere irraggiungibile.
Il terzo c’entra con la nostra presunta indipendenza dagli altri, così come col presunto libero arbitrio, che – entrambi – sono strutturalmente impossibili, il che ci rende (vivaddio) imperfetti e ricchi di grandi e vane illusioni circa noi stessi.
La conseguenza è che l’esperienza umana è limitata, piena di vincoli, in gran parte etero-determinata. E proprio in ciò sta la sua esaltante grandezza: quella della notevole impotenza (meglio se consapevole), della finitezza che cerca di superarsi, dell’irrilevanza nel cosmo che non si accetta e cerca di lasciare una piccola traccia.
In questi sforzi – spesso fallaci – di fuoriuscire da noi sta la bellezza della vita, fugace e fragile ma non perciò priva di senso: per la tensione verso un ‘di più’ per molti versi irraggiungibile.
ci sono tanti tipi di debolezza ma c’e ne è una che detesto, ovvero la finta debolezza
di chi spacciandosi per fragile continua a chiedere ai presunti forti e si porta a casa quel che vuole