Farsi portare

Mi ha sempre affascinato l’apparente somiglianza tra ‘librarsi’ e ‘liberarsi’, quasi che il volteggiare in cielo sia una liberazione dal muoversi solo sulla terra.

In realtà si tratta di due vocaboli non apparentati: liberarsi viene da libero, non soggiogato alla volontà o al dominio altrui; librarsi, invece, deriva da ‘libra’, il segno della bilancia, dell’equilibrio, che si tramuta in movimento aereo per mantenersi appunto in equilibrio nel volare: da cui deriva il librarsi in cielo degli uccelli o degli alianti, che si fanno portare dai venti in quota abbandonandosi a essi, senza un motore e senza opporre resistenza alle loro spinte oltre che alla forza di gravità.

Eppure, sento che esiste qualcosa in comune tra la silente libertà nell’atmosfera e il moto degli alianti dalle grandi ali (di solito trainati in alto da un aereo a motore o gettatisi da un pendio elevato). Qualcosa che ha a che fare con la scelta di abbandonarsi ai venti, di sfruttare energie altrui per volare, prima o poi ridiscendendo a terra.

È, questa, un’esperienza che provano alcune persone che fanno il percorso di Sòno, quando escono dalla loro condizione di rettili, che strisciano sul suolo dell’esistenza sin qui, per farsi aiutare ad andare in quota e poi dolcemente planare guardando alla propria vita dall’alto.

Certo, non è una piena liberazione auto-realizzativa (per la quale l’aliante – dotato di un motore – diverrebbe un aereo a tutti gli effetti, capace di decollare, salire, auto-governarsi). Ma costituisce un primo assaggio del volo, cioè della liberazione dal consueto terreno terrestre.

Ecco perché, secondo noi, librarsi e liberarsi sono cugini, seppur non fratelli o sorelle. E mi fermo qui, non sottoponendovi un’altra presunta parentela: quella tra librarsi, liberarsi e libro (ossia cultura, riflessione, accesso a teorie o storie altrui). Un altro falso accomunamento, ricco però di suggestioni profonde.

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